domenica 5 giugno 2022

SAYURI parte 2 - IL LENTO CAMMINO

Il giorno dopo, il 10 gennaio 2014, era una giornata fredda ed umida, com'era di norma d'inverno a Kyoto, ma il cielo per fortuna non minacciava la solita e fastidiosa pioggerella di stagione, che quell’anno solo una volta si trasformò in neve. Finii lezione come al solito alle 13, comprai un bento con riso, carne, zucca marinata in salsa di soia e tenpura, e lo mangiai all’unico tavolo della zona relax della scuola, dove, oltre a me, c’erano solo altri due svedesi intenti a memorizzare i loro primi kanji. Dopo il lieto pasto mi risparmiai il consueto caffè caldo in lattina Boss, reclamizzato da un cupo Tommy Lee Jones accanto ad un giapponese in occhiale scuro altrettanto scazzato, ma volli coccolarmi con il caffè della caffetteria Anshin della vecchietta Shizuka, sulla stessa via Manjuji-dori della scuola. Erano ancora le due, ma il sole era già basso in cielo. Tra un sorso di americano e uno sguardo perso tra le foglie secche della pianta accanto al mio tavolo, riuscii a dedicare addirittura un'ora al ripasso della lezione appena conclusa, dieci minuti allo svolgimento dei compiti, due al pagamento del conto (la gentile vecchietta contava fin troppo accuratamente le monete da restituire come resto), prima di riprendere il viaggio verso la presunta felicità. 

Attraversai il vialone Orikawa-dori, irriconoscibile senza il manto dorato di foglie che fino ad un mese prima copriva alberi e marciapiede, e mi infilai di nuovo tra i vicoli silenziosi della città, dove, superato un condominio bianco di dieci piani, ritrovai la quiete delle casette mono-famiglia. L’odore del legno delle case si alternava a quello dell’asfalto nero pece dei parcheggi a pagamento, o a quello più secco del cemento dei chioschi dei Seven Eleven, o Family Mart, o mille altri brand che, prevedibili come il loro design, amavano posizionarsi agli angoli delle strade per sfoggiare ai clienti il loro doppio ingresso. La via Kuromon virò a destra in corrispondenza di un piccolo cimitero con piccole lapidi ammassate in modo ordinato, superato il quale incrociai la via Matsubara, rallegrata da diversi negozi: il forno Maruki, che con il solito stile ibrido ed indefinito franco-austro-americano delle panetterie giapponesi esibiva una fila di fragranti pani in cassetta, tortine alla crema incartate singolarmente, strascichi di focaccia dolce al pomodoro e accenni di strudel... l’ennesima caffetteria dal nome francese... una micro-clinica per denti situata al secondo e ultimo piano di un palazzo... fino a raggiungere un portone in legno che si apriva ad un santuario, circondato da tanti alberelli in processione. L'insegna riportava il nome Saiko, luce dell’ovest. 

Matsubara-dori continuò senza interruzioni tra negozi, abitazioni private e pali della luce, fino a costeggiare un vuoto e modesto cortile di un liceo, la cui recinzione non mi impedì di spiare dentro i corridoi illuminati: fuori era ormai buio e faceva freddo, ma la luce di una stanza al piano terra era calda, ed alcuni studenti che non potevo vedere, ma che immaginavo con la stessa uniforme dei compagni di Ranma ed Akane, stavano suonando degli strumenti a fiato. Poco oltre la scuola il cavalcavia della Japan Railway tagliava perpendicolarmente la via; Google maps mi confermò che quella linea ferroviaria conduceva verso nord, così decisi di virare a destra e farmi scortare fino alla stazione di Nijo, non distante da casa di Sayuri. Continuai per una quindicina di minuti lungo una strada ancora più stretta e buia, accompagnata da una recinzione metallica e un muro di cemento, oltre il quale vedevo solo polvere e piccoli capannoni aziendali. Nel buio e nel freddo di quel momento, gli unici testimoni della mia crescente frenesia erano i pilastri della ferrovia.

A cento metri dalla stazione Nijo incrociai finalmente il viale Sanjo, ritrovando la luce della città. Girai a sinistra, mancava ormai poco meno di un KM alla meta ed un nervosismo misto ad eccitazione iniziò pian piano ad annebbiarmi la vista: proseguivo non curandomi del canale che spuntò quasi all’improvviso da una via trasversale, seguendomi per un po' fino a scomparire sotto il parcheggio di un negozio di dolciumi e articoli da regalo; non notai nemmeno un tenero santuario shintoista in legno che poggiava su due lastre in marmo e un blocco di pietra levigata, proprio accanto ad un gommista; o ancora un bistrot italiano Ca Del Viale, che esibiva, disconnesso dal contesto in cui si trovava, un piccolo faggio e due tavolini da rifugio di montagna... finché l’insegna stradale Nishikoji-dori non mi svegliò per ricordarmi che avrei dovuto avvisare Sayuri del mio imminente arrivo.

 


 

continua con l’ultima parte… 

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