venerdì 10 giugno 2022

SAYURI parte 3 - Disillusioni

 Il mio palazzo è quello bianco/beige dietro al Seven Eleven. Prendi la discesa che porta all’ingresso del mio palazzo, poi sali al secondo piano e gira l’angolo a sinistra, il mio appartamento è il 205.

Un lungo pianerottolo illuminato di bianco scorreva attorno al muro esterno del palazzo. Quando la testa di Sayuri sbucò fuori dalla penombra di casa, gli occhi le si chiusero per la forte differenza di luce: nel monolocale era accesa solo una timida lampada nell’angolo opposto della porta di ingresso. Era in un soffice pigiama grigio, si era appena svegliata da una pennichella di due ore. Mi invitò con gambe instabili a sedermi su un piccolo divano in stoffa bianca, mentre lei si accucciò sul piumone del suo letto, proprio sotto al getto caldo del condizionatore: dovetti spogliarmi a maniche corte, tanta l’escursione termica da fuori a dentro.

Grazie per essere venuto. Ho proprio bisogno di sfogarmi con qualcuno. E’ successa una cosa brutta, incredibile, ma non voglio parlarne con le mie migliori amiche per non farle preoccupare. E così ho pensato a te… 

Ascoltate quelle parole, non capii bene se sentirmi onorato o un sacco da boxe.

… ma prima di iniziare, hai fame? Io sì, oggi ho dormito tutto il giorno e non ho proprio mangiato.

Mi proposi di andare al supermercato a comprare qualche bento, o sushi, o donburi già pronto, ma lei rifiutò con voce bassa motivando che non voleva farmi uscire di nuovo fuori al freddo, e anzi si scusò per avermi fatto camminare così tanto. Tirò fuori quindi un volantino di Domino’s Pizza chiedendomi se anche a me piacesse la pizza con pomodoro, mozzarella, salame, patatine, maionese e spinaci... io risposi di sì, anche se in realtà era no… ma in quel momento, con quella ragazza nel suo grazioso pigiamino grigio avrei mangiato anche un piatto di spaghetti al ketchup. Finito l’ordine posò il telefono sul letto e si mise accanto a me sul divano.

Ti ho già detto che ho passato natale e capodanno in Olanda, no? Beh, non ti ho detto però che lì ho scoperto che il mio ragazzo è un mostro.

Sayuri aveva conosciuto il suo ragazzo olandese, Tom Kindergaater, un anno prima nella sua stessa università di Kyoto, dove stava trascorrendo un anno di scambio culturale. Lo aveva colpito subito per la dolcezza dei suoi occhi azzurri, per l’eleganza del suo ciuffo biondo; solo quando erano insieme si sentiva bene, tanto, davvero, forse anche grazie agli sguardi pregni di invidia delle ragazze che li incrociavano, quando erano in giro mano per mano. Un principe azzurro insomma, da cui aveva dovuto separarsi quando tornò in Olanda a fine settembre ma che voleva a tutti i costi rivedere... e quell’attesa aveva trasformato i tre mesi di lontananza in un’agonia insopportabile. A tal proposito aggiungerei che l’espressione che aveva mentre era sottobraccio a quel francese, ad ottobre durante il famoso barbeque, era infatti quella tipica di chi sta soffrendo tanto tanto. Ma natale era arrivato subito, e finalmente aveva potuto riabbracciare il suo amore. Le era parso strano però che non la baciava più così spesso come quando erano in Giappone… ma probabilmente dopo tanto tempo separati lui si sentiva un po’ impacciato. Eppure... anche lasciarla a casa da sola con la sorella, mentre lui usciva chissà dove, non le sembrava molto normale… bah... ma forse pure questo era dovuto all’imbarazzo, dopotutto tre mesi distanti l’un l’altro erano tanti. Insomma, da natale a capodanno, con la scusa della costante presenza dei familiari in casa, i due piccioncini non avevano goduto nemmeno di un momento di intimità. Finché il primo dell’anno Sayuri, durante il consueto ritrovo familiare, vagando su facebook seduta sul divano opposto a quello del ragazzo aveva scoperto che una certa Sonya Vaardasten si era appena fidanzata ufficialmente con Tom Kindergaater. Era stato proprio quest’ultimo a condividere la notizia sulla sua pagina, e, spaparanzato sul divano in pelle nera, sembrava proprio fiero di questa news. Sayuri, da perfetta giapponese, nonostante il cuore nebulizzato non aveva esplicitato nessuna reazione contro il suo ormai ex, limitandosi a passare i successivi quattro giorni che la separavano dal volo di ritorno piangendo e singhiozzando, tuttavia lontano dagli occhi degli ex suoceri, che erano stati tanto carini ad ospitarla e non voleva dar loro dispiacere.

Dopo aver finito il racconto si rannicchiò ancor di più su se stessa ed iniziò a fissare il vuoto del pavimento in finta moquette, ed io ancor di più avrei voluto stringerla e sussurrarle, con voce calda: Tranquilla, ci sono qui io adesso… ma purtroppo non ne ebbi le palle, e ciò che ne seguì fu solo un monotono flusso di lui non ti merita, tu sei una ragazza forte che uscì dalla mia bocca.
Per fortuna arrivò l’omino della pizza con l’uniforme e il cappellino blu a ravvivare l’atmosfera, e dopo aver pagato i dovuti 1.200 yen (circa 10 euro) per la pizza americana ci sedemmo sul pavimento e mangiammo, conversando di temi meno luttuosi tra cui il suo recente viaggio a Bali. Fino a quando, senza nessun preavviso, e senza nemmeno un alcolico che giustificasse un tale volo pindarico, mi esplicitò in faccia:

La sorella di Tom mi ha detto che l’unico modo per superare una delusione d’amore è trovare un altro ragazzo…

Ah.

Nei tre secondi successivi a quelle parole nella mia testa si avvicendarono, in ordine cronologico, i seguenti pensieri:

1. Ok ora devo baciarla.
2. No devo mantenere la calma.
3. Dille che trovare un altro ragazzo per dimenticare l’ex può portare solo a più confusione.
4. Credo di essere diventato gay.
5. No, sono diventato un coglione.
6. Baciala e statti zitto.

L’ultimo per fortuna ebbe la meglio e la baciai, e lei non fece alcuna resistenza, anzi.

Tornando a casa scelsi apposta il tragitto lungo, per godermi il più possibile la scia di quella nottata. Uscii dal suo palazzo alle due di notte e mi incamminai verso la stradina di fronte che defluiva dal viale Sanjo e proseguiva verso nord. Mi sentivo caldo, nonostante la temperatura che si preparava a scendere sotto lo zero. Sorridevo ad ogni manifesto elettorale che incrociavo, o ad ogni signorina che reclamizzava una birra, o un liquore, o qualunque cosa vendessero i distributori automatici ad ogni angolo di qualunque casa. Evitavo le arterie principali perché volevo respirare il legno delle villette più o meno modeste che affollavano, silenziose, le vie più piccole, o perché volevo appendermi alle barre delle altalene nei giardinetti diffusi un po’ ovunque in città. Mi sentivo bene.
Mi sentivo bene perché sapevo che, di lì in poi, non avrei mai più visto Sayuri. 

Il giorno dopo infatti le scrissi per ringraziarla per la serata, come si fa in questi casi, e la invitai a bere un caffè pomeridiano; ma lei era stanca (?) e chiese di posticipare al giorno dopo, che era domenica e le sembrava il giorno della settimana più adatto ad un caffè fuori. La domenica dunque le scrissi per organizzarci, ma lei si scusò perché accidenti si era dimenticata di avere un appuntamento con le sue amiche. Allora io risposi che andava bene e che non doveva preoccuparsi, e che per lei ero sempre libera, bastava che mi facesse sapere. E infatti non lo fece. Nell’arco delle due settimane successive insistetti altre due volte, incontrando ancora lo stesso muro di scuse, finché alla terza mia richiesta di incontrarci quelle scuse non si trasformarono in silenzio. La confusione fece spazio alla rabbia, poi alla delusione, poi ancora all’odio verso tutte le ragazze giapponesi dalla risatina imbarazzata che incontravo per strada, così dolci all’apparenza, così false nella sostanza, così indifese ad occhi inesperti, così fatali se cedi al loro canto. Non ho mai capito il vero motivo per cui Sayuri si fosse allontanata così, senza spiegazioni, dopo essersi completamente aperta a me in quella notte del 10 gennaio.

Eppure, col senno di poi, devo molto a lei. E’ grazie a questa esperienza che riuscii a disincantare gli occhi dalle bamboline giapponesi e a godermi in modo più concreto e rilassato i miei giorni giapponesi.

 


 

domenica 5 giugno 2022

SAYURI parte 2 - IL LENTO CAMMINO

Il giorno dopo, il 10 gennaio 2014, era una giornata fredda ed umida, com'era di norma d'inverno a Kyoto, ma il cielo per fortuna non minacciava la solita e fastidiosa pioggerella di stagione, che quell’anno solo una volta si trasformò in neve. Finii lezione come al solito alle 13, comprai un bento con riso, carne, zucca marinata in salsa di soia e tenpura, e lo mangiai all’unico tavolo della zona relax della scuola, dove, oltre a me, c’erano solo altri due svedesi intenti a memorizzare i loro primi kanji. Dopo il lieto pasto mi risparmiai il consueto caffè caldo in lattina Boss, reclamizzato da un cupo Tommy Lee Jones accanto ad un giapponese in occhiale scuro altrettanto scazzato, ma volli coccolarmi con il caffè della caffetteria Anshin della vecchietta Shizuka, sulla stessa via Manjuji-dori della scuola. Erano ancora le due, ma il sole era già basso in cielo. Tra un sorso di americano e uno sguardo perso tra le foglie secche della pianta accanto al mio tavolo, riuscii a dedicare addirittura un'ora al ripasso della lezione appena conclusa, dieci minuti allo svolgimento dei compiti, due al pagamento del conto (la gentile vecchietta contava fin troppo accuratamente le monete da restituire come resto), prima di riprendere il viaggio verso la presunta felicità. 

Attraversai il vialone Orikawa-dori, irriconoscibile senza il manto dorato di foglie che fino ad un mese prima copriva alberi e marciapiede, e mi infilai di nuovo tra i vicoli silenziosi della città, dove, superato un condominio bianco di dieci piani, ritrovai la quiete delle casette mono-famiglia. L’odore del legno delle case si alternava a quello dell’asfalto nero pece dei parcheggi a pagamento, o a quello più secco del cemento dei chioschi dei Seven Eleven, o Family Mart, o mille altri brand che, prevedibili come il loro design, amavano posizionarsi agli angoli delle strade per sfoggiare ai clienti il loro doppio ingresso. La via Kuromon virò a destra in corrispondenza di un piccolo cimitero con piccole lapidi ammassate in modo ordinato, superato il quale incrociai la via Matsubara, rallegrata da diversi negozi: il forno Maruki, che con il solito stile ibrido ed indefinito franco-austro-americano delle panetterie giapponesi esibiva una fila di fragranti pani in cassetta, tortine alla crema incartate singolarmente, strascichi di focaccia dolce al pomodoro e accenni di strudel... l’ennesima caffetteria dal nome francese... una micro-clinica per denti situata al secondo e ultimo piano di un palazzo... fino a raggiungere un portone in legno che si apriva ad un santuario, circondato da tanti alberelli in processione. L'insegna riportava il nome Saiko, luce dell’ovest. 

Matsubara-dori continuò senza interruzioni tra negozi, abitazioni private e pali della luce, fino a costeggiare un vuoto e modesto cortile di un liceo, la cui recinzione non mi impedì di spiare dentro i corridoi illuminati: fuori era ormai buio e faceva freddo, ma la luce di una stanza al piano terra era calda, ed alcuni studenti che non potevo vedere, ma che immaginavo con la stessa uniforme dei compagni di Ranma ed Akane, stavano suonando degli strumenti a fiato. Poco oltre la scuola il cavalcavia della Japan Railway tagliava perpendicolarmente la via; Google maps mi confermò che quella linea ferroviaria conduceva verso nord, così decisi di virare a destra e farmi scortare fino alla stazione di Nijo, non distante da casa di Sayuri. Continuai per una quindicina di minuti lungo una strada ancora più stretta e buia, accompagnata da una recinzione metallica e un muro di cemento, oltre il quale vedevo solo polvere e piccoli capannoni aziendali. Nel buio e nel freddo di quel momento, gli unici testimoni della mia crescente frenesia erano i pilastri della ferrovia.

A cento metri dalla stazione Nijo incrociai finalmente il viale Sanjo, ritrovando la luce della città. Girai a sinistra, mancava ormai poco meno di un KM alla meta ed un nervosismo misto ad eccitazione iniziò pian piano ad annebbiarmi la vista: proseguivo non curandomi del canale che spuntò quasi all’improvviso da una via trasversale, seguendomi per un po' fino a scomparire sotto il parcheggio di un negozio di dolciumi e articoli da regalo; non notai nemmeno un tenero santuario shintoista in legno che poggiava su due lastre in marmo e un blocco di pietra levigata, proprio accanto ad un gommista; o ancora un bistrot italiano Ca Del Viale, che esibiva, disconnesso dal contesto in cui si trovava, un piccolo faggio e due tavolini da rifugio di montagna... finché l’insegna stradale Nishikoji-dori non mi svegliò per ricordarmi che avrei dovuto avvisare Sayuri del mio imminente arrivo.

 


 

continua con l’ultima parte… 

sabato 4 giugno 2022

SAYURI

Sayuri era una ragazza giapponese di 22 anni, all’ultimo anno di università alla Kyoto University, dove studiava lingue straniere e qualcos’altro correlato a queste, forse letteratura americana. Era nata nel 1992 a Sapporo, in Hokkaido, ma la passione per i film americani l’aveva spinta ad approfondire le sue (e non solo sue, ma del 99% dei giapponesi) mediocri conoscenze di inglese e iscriversi alla migliore università di lingue straniere del paese. Sayuri era la tipica ragazza giapponese nella testa di un occidentale che immagina una ragazza giapponese: come uno stereotipo vivente, era bassina, carina, capelli a caschetto, sorriso con guanciotte timide, occhietto dolce ed imbarazzato, e parlava solo se era qualcun’altro a darle la parola. 

Quando la conobbi, durante un barbeque sulla riva del fiume Kamogawa, accanto alle montagne che segnano il confine occidentale di Kyoto, mi accorsi subito che incarnava il mio ancora acerbo ideale di ragazza. Nel momento in cui le strinsi la mano era sotto braccio ad un francese dalla risata spavalda, il quale, nel frattempo, stava abbracciando anche la migliore amica di Sayuri, una più in carne ed estroversa ragazza di Nagoya di nome Miyako. Credo che Sayuri fosse già brilla, come tutti gli altri trenta della compagnia, ma prima che tornasse in taxi in dormitorio riuscii fortunatamente a scambiare il contatto facebook, e anche con l'amica Miyako, che sennò sembrava brutto. 

 


 

Appena a casa, notte fonda ormai, ero ancora su di giri per il mio primo barbecue giapponese e per i traghetti di alcool ancora in corpo, per questo rifiutai l’invito del letto e mi buttai al computer con l’intento di spulciare il profilo social della mia nuova fiamma. Ma l’eccitazione si spense subito: non fu necessaria un’analisi dettagliata per scoprire che Sayuri era fidanzata con un certo Tom che era nato ad Amsterdam, il quale, tra due bestemmie, fu subito etichettato come un rompicazzo guastafeste maledetto.


Quel barbeque si fece nell'ottobre 2013, una settimana dopo il mio arrivo in Giappone, e da allora, a parte due mi piace a due foto su facebook, un mio commento ed una sua risposta, Sayuri rimase solo una giapponese carina di cui avrei volentieri approfondito la conoscenza, ma di cui, allo stesso tempo, non riuscivo ad avere nessun flash erotico, per via dell’innocenza e della dolcezza puerile che mi trasmettevano i suoi occhi.
Finché non arrivò capodanno, e Sayuri, con la scusa degli auguri, si dilungò fin troppo in una conversazione nella chat di facebook. Lei in quel momento era ad Amsterdam dal ragazzo, e io ancora sotto effetto dell’hangover della nottata precedente in discoteca, ma nonostante questo riuscii a gestire bene le poche energie celebrali e a portare avanti una chiacchierata di una o due ore, totalmente priva di contenuti, né tantomeno allusioni sensuali, ma comunque piacevole, principalmente per il fatto che chi mi stava scrivendo era una ragazza carina, con le labbra soffici e il caschetto nero che mi piaceva tanto. Ci scrivemmo bye bye, e dopo quel pomeriggio seguirono altri 9 giorni di elettrocardiogramma piatto, in cui, nonostante ne fossi tentato, non le mandai nessun messaggio: illudermi con una ragazza fidanzata era un’esperienza che non avrei mai più voluto ripetere. 

Finché il 9 gennaio 2014, appena tornato a casa da scuola, non trovai un suo messaggio nella solita chat di Facebook: Ciao, come stai? Sei impegnato oggi? Ti va di venire a casa mia? Ho bisogno di parlare.
Me l’aveva inviato all’una circa, ma non potendo usare internet senza wifi fui in grado di risponderle solo tre ore più tardi. Ciao, tutto bene grazie, certo che posso venire, dove abiti?
Replicò un paio d’ore dopo: Scusami mi ero addormentata. Ora è tardi, vuoi venire domani pomeriggio? A qualunque ora va bene, ti mando una mappa e l’indirizzo del mio appartamento.


La mappa era nient’altro che la foto di un foglietto a quadretti A5 su cui aveva pastrocchiato la parola Sanjo-Nishikoji, l'incrocio accanto al suo palazzo, al centro di una croce, ai cui quattro angoli traballavano dei quadrati con su scritto Joy, restaurant, in basso a destra, 100yen shop Lawson, in alto a destra, フォース (fōsu, che non ho mai capito a quale negozio facesse riferimento) in alto a sinistra, e un 7 in basso a sinistra, probabilmente riferito al convenience store seven eleven, accanto al quale spiccava entusiasta un cerchio al cui interno era sottolineato my house

Tutto chiaro. 

Per fortuna ho un buon senso dell’orientamento, e dopo aver decriptato i codici grazie a Google Maps ho scoperto che la mia scuola, alloggiata a pochi passi dalla stazione Gojo-Karasuma, distava a piedi 55 minuti da casa sua. Non ho volutamente considerato l’opzione di muovermi con l’autobus, non tanto perché sono (molto) tirchio, più che altro perché ogni scusa era buona per assaporare, centimentro dopo centimetro, zone nuove della città più bella del mondo. Ero eccitato per la mia imminente avventura, non vedevo l’ora di godermi quella lunga camminata preliminare all’incontro con Sayuri, umilmente bramato dal primo giorno che l’avevo vista.

 ... continua...